Giovanna Frasoli, Amerigo Sallusti – When The Revolution Comes. La cultura afroamericana dalla tratta degli schiavi al Black Lives Matter

Recensione

Partiamo da una parola che da sola potrebbe già spiegare l’origine e il destino di un popolo: wobblies, gli “itineranti”. Uomini e donne che, con ogni rischio possibile, attraversavano gli Stati Uniti mossi unicamente dalla convinzione che per liberare la sterminata platea di lavoratori neri fosse necessario insistere sulla consapevolezza dei propri diritti, diffondere ideali di giustizia e convincere ogni individuo della necessità di lottare per l’emancipazione di tutta la comunità.

Siamo a Chicago, primi anni del Novecento: nasce un sindacato dal nome fin troppo esplicito Industrial Workers of the World (IWW), Lavoratori Industriali del Mondo, un sindacato che alle maestranze specializzate univa donne, disoccupati e lavoratori afroamericani.

Furono proprio questi ultimi a portare in dote una capacità insolita all’interno delle lotte salariali: la propria vocalità, quella irriducibile spinta a musicare qualunque cosa. “E così i lavoratori dell’IWW, durante gli scioperi, le assemblee, i picchettaggi, spiegavano le proprie ragioni agli operai crumiri cantandogliele, davvero. Cantavano e volantinavano in tutte le lingue del mondo: in tedesco, spagnolo irlandese, italiano, russo, poiché da tutto il mondo proveniva questa enorme massa migratoria che giungeva sulle sponde di questo nuovo continente con la speranza di un lavoro”.

Cosa cantassero lo apprendiamo scorrendo le pagine di un libro di notevole interesse, “When The Revolution Comes” di Giovanna Frasoli e Amerigo Sallusti: canzoni di protesta operaia di Joe Hill, immigrato dalla Scandinavia e primo cantore della rabbia di tutti quei lavoratori sfruttati e sfiniti dal massacrante lavoro nelle fabbriche come nei campi. La canonizzazione della sua figura arrivò con la morte, un’ingiustizia secondo molti, cioè una condanna per omicidio da molti giudicata solo il pretesto utile per sbarazzarsi di un uomo ormai diventato pericoloso. Questa storia, ma ce ne sono moltissime altre nel libro, ci dice una cosa di cui troppo spesso ci dimentichiamo, cioè di quanto la musica sia rivoluzionaria. Di quanto lo sia sempre stata, in epoche dove altre erano le battaglie, altre le conquiste. E dove ancora era fondamentale, per raggiungere luoghi molto distanti, compiere viaggi interminabili verso città e paesi che altrimenti sarebbero rimaste isolate.

Facendo comizi dappertutto e improvvisando concerti, a Pittsburgh con i suoi grandi centri siderurgici, nel porto di San Francisco e tra i tessili di Lawrence nel Massachusetts. Ci furono anni di vittorie e grandi riconoscimenti economici e sociali che tuttavia indussero le autorità governative a protezione delle polizie private assoldate dal “blocco padronale” a reprimere brutalmente l’intero movimento con l’agghiacciante Red Scare, la caccia “al rosso”. Nel giro di pochi anni, epoca Prima Guerra Mondiale, l’organizzazione sindacale venne sciolta e i wobblies spazzati via. Gli itineranti però non scompaiono, molti anni dopo è possibile stanarli nei palazzi del Bronx, per le strade di Brooklyn. Nel 1977, New York, la città più illuminata del mondo, si spegne quando un fulmine colpisce la centrale elettrica di Manhattn scatenando una reazione a catena che disattiva l’enorme generatore  del Queens, Big Allis. “Nel quartiere buio molti, per paura, si barricarono in casa mentre altri uscirono in strada a fare razzie. Come altri ragazzi, anche loro si precipitarono verso la vetrina di un negozio di musica per cercare di accaparrarsi l’attrezzatura utile per il lavoro di dj che, fino ad allora, non avevano potuto permettersi”.

Grandmaster Caz, protagonista della prima stagione Rap, non è un caso ricordi l’episodio del blackout come uno dei momenti fondamentali per la comunità: finalmente molti musicisti poterono permettersi mixer e giradischi di qualità superiore, sperimentando e suonando musica che per negli anni Ottanta avrebbe dato forma a quello che oggi conosciamo come Hip hop. È proprio in questi anni, nei luoghi dell’emarginazione dove la guerra tra le gangs rende invivibili molte zone di Chicago, che uno dei pionieri della nascita del genere, Kevin Donovan, con la sua Universal Zulu Nation, organizza un progetto politico e sociale sul modello della AACM, Association for the Advancement of Creative Musicians. Con il nome d’arte Afrika Bambaataa si rivelerà fondamentale per sperimentazioni e influenze (è ad oggi considerato il padre dell’Electro funk) e, più in generale, per l’attivismo nei confronti dell’intera comunità nera. L’obiettivo era quello di trasformare gangster e delinquenti in cantanti, graffitari e ballerini di breakdance, permettendo loro di incanalare la rabbia e i loro sentimenti in arte. Parte degli sforzi profusi da Afrika Bambaataa furono ben riposti, molti ragazzi riuscirono a tenersi lontano dalla strada e nei quartieri, anche quelli più in difficoltà, un certo miglioramento divenne visibile già alla fine degli anni Ottanta, di fatto l’arco temporale di maggior impegno del dj newyorkese. Ma ancora molto c’era da fare e i disordini del 1992 che incendiarono Los Angeles, simbolo di quante disuguaglianze fossero ancora presenti nella società americana, si incaricarono di confermarlo.

Frasoli e Sallusti si spingono fino ai giorni nostri e concludono il libro con un capitolo dal titolo eloquente “I Can’t Breathe”, le ultime drammatiche parole pronunciate da George Floyd steso a terra con il ginocchio di un poliziotto premuto sul collo, immediatamente assurte a slogan del movimento Black Lives Matter. Con il pericolo di alcune derive, e una radicalizzazione ideologica sempre più evidente, la strada fatta sin qui riprende il suo corso, e le rivendicazioni degli ultimi tempi aprono scenari inediti di difficile previsione. Su una cosa però possiamo sbilanciarci: i wobblies sono tornati e chissà che questa volta non riescano a terminare il lavoro. A Change Is Gonna Come…

Questo articolo appare anche su Kalporz, per reciproca volontà degli autori ed editori.