L’Italia del boom va in sala

Riflessione

Il cinema del boom economico è ricco di titoli significativi, appartenenti per lo più a un genere, quello della “commedia all’italiana”, che seppe traghettarlo fuori dalle secche di un neorealismo che aveva ormai esaurito la sua carica di denuncia.

Il cinema aveva bisogno di fotografare i cambiamenti presenti nella società, la “mutazione antropologica”, per dirla con Pier Paolo Pasolini.

Lo storico Giovanni De Luna in Cinema Italia (Utet, 2022) sostiene che molte pellicole dell’epoca “si impegnarono a definire chi erano i nuovi italiani, proponendo una galleria di ritratti monografici, tutti con un titolo in cui l’articolo determinativo precedeva il sostantivo che indicava lo stato civile o il mestiere dei protagonisti”.

Fu soprattutto Alberto Sordi, forse la maschera più importante del nostro cinema, a proporsi in questo senso (Il seduttore, 1954; Lo scapolo, 1955; Il marito, 1958; Il vedovo, 1959; Il moralista, 1959), anche con vari ritratti dedicati ai tutori dell’ordine (Il vigile, 1960; Il carabiniere a cavallo, 1961; Il commissario, 1962; Il comandante, 1963).

Lo stesso attore romano, a più riprese, affermò di aver rappresentato “tutti gli italiani”, con i loro pregi e i loro difetti, nel processo in atto che investiva in quegli anni tutto il paese.

Sempre De Luna: “Rocco e i suoi fratelli (1960) di Luchino Visconti è in particolare il film che ci consente oggi di leggere nel boom i crudi tratti di una tragedia esistenziale, descritta questa volta senza chiaroscuri o incertezze: la grande trasformazione per molti era stata solo un sogno, andato in pezzi nella dura realtà dell’emigrazione e dello straniamento”.

Il film si gioca sulla netta contraddizione, dalle prime scene, tra lo scenario contadino della partenza e la grande città operosa e trafficata, in cui pure si intravedono i presupposti per una difficilissima rifondazione umana.

Emigrazione dal meridione al settentrione d’Italia, vecchia storia che prosegue almeno dalla fine del diciannovesimo secolo ma che con la modernizzazione vede una notevole accelerazione.

“Per la famiglia Parondi (al centro delle vicende narrate nel film di Visconti), partita lasciandosi alle spalle un paesaggio che, tra mare e montagna, era tra i più belli del mondo, la “terra promessa” si trasforma presto nello squallore dell’hinterland milanese: un incubo urbanistico con alloggi tanto provvisori quanto miseri, circondati dalle nebbie ostili di un mondo attraversato da urla di sirene e stridori di tram, scandito dai ritmi delle fabbriche e degli uffici”.

Non è un caso che in molti dei film del boom vi siano presenti speculazioni edilizie e palazzi in costante costruzione.

Emblematiche, in questo senso, sono le immagini televisive di un’altra esordiente d’eccezione dell’epoca, Liliana Cavani.

“Il disordine edilizio, il pullulare improvviso di quartieri anonimi, la speculazione edilizia, il prezzo esorbitante delle aree, la necessità di un piano regolatore: sono questi gli elementi che la Cavani propone per dare una drammatica concretezza al “problema della casa”, ambientandolo in un’Italia profondamente diversificata nella sua composizione sociale: le case degli operai della Olivetti, a Ivrea, ma anche le ville dell’Olgiata, la zona residenziale dei ricchi, a Roma; da un lato i quartieri dormitorio, dall’altro le oasi verdi e i campi sportivi, interni domestici da far invidia a quelli a suo tempo proposti dai “telefoni bianchi”, affollati di televisori ed elettrodomestici, abitati da gente appagata e compiaciuta della sua ricchezza”.

Il tempo meteorologico scandito dalle albe e dai tramonti di La terra trema (1948) di Luchino Visconti, il quale traspose al cinema la saga dei Malavoglia dello scrittore verista Giovanni Verga, si è dissolto nel tempo quantitativo e normativo degli orari di fabbrica, dei turni di lavoro, e il loro farsi operai ha i toni cupi delle pagine caustiche, e poetiche, di Luciano Bianciardi, autore de La vita agra, altro gioiello della produzione di quegli anni da cui sarà tratto un film, non altrettanto convincente del libro, con l’attore Ugo Tognazzi.

Secondo De Luna: “il cinema e la letteratura, insieme, ci descrivono così i tratti di una rivoluzione che aveva investito non il sistema politico ma direttamente le facce e i comportamenti degli uomini e delle donne, una nuova stratificazione sociale in cui non solo gli operai ma anche e soprattutto i ceti medi avevano smarrito le loro caratteristiche novecentesche per mostrarsi in una luce completamente nuova, non migliore o peggiore, vivendo un protagonismo inedito, quasi allucinato”.

Due anni dopo, nel 1962, il boom trova la sua rappresentazione più efficace ne Il sorpasso di Dino Risi.

La nuova antropologia degli italiani emersa dal boom economico e dall’industrializzazione è ora tutta racchiusa nella scomposta voracità del personaggio interpretato da Vittorio Gassman.

La trama del film racconta un viaggio nell’Italia di Ferragosto di un personaggio adrenalinico (Bruno Cortona interpretato da Gassman) insieme a uno studente mite e perbene (Roberto interpretato da Jean Louis Trintignant), in un classico on the road che segue i due protagonisti fino al tragico epilogo, con la Lancia Spider di Gassman (sul parabrezza ha un contrassegno della Camera dei deputati che dovrebbe servire a evitargli le multe) finita fuori strada, ribaltandosi in un burrone in un incidente in cui Trintignant rimane ucciso.

In questo tragico finale c’è tutta la voglia, ritratta amaramente da Risi, da parte dell’Italia di dimenticare ed esorcizzare il suo passato contadino: una voglia smodata di consumi fu il combustibile che alimentò un grande falò, in cui furono bruciate appartenenze regionali, convinzioni ideologiche, dialetti, tradizioni, in un tumultuoso processo di omologazione che ebbe come unico, ossessivo riferimento la disponibilità individuale al successo e al fare soldi.

Il dinamismo un po’ cialtrone di Gassman che corre sull’Aurelia, lungo la strada delle vacanze da Roma a Castiglioncello, sulla sua macchina rombante, il suo personaggio ansioso di consumare beni che non aveva mai consumato prima, di godere di viaggi che non aveva mai fatto prima, era l’icona simbolica dell’italiano uscito dalla “grande trasformazione”.

Il lavoro non era più solo il “posto fisso”, per cogliere le opportunità di un mercato in espansione bisognava pagare il prezzo di un’inedita precarietà esistenziale.

Lo stesso Gassman, solo quattro anni prima, “approdava al lavoro nel cantiere edile dei Soliti ignoti, in una sorta di rifondazione esistenziale”: per dire di quanto le cose fossero cambiate rapidamente in pochi anni, e gli stessi valori sociali sottoposti ad un inedito processo di messa in discussione.

In questo tramestio, anche l’Italia della politica fu costretta ad adeguarsi.

Le formule governative che avevano segnato la stagione della ricostruzione e del centrismo degasperiano vennero meno e il rapporto tra i partiti e la società civile cominciò a prendere una configurazione che avrebbe svuotato dall’interno i tratti “pedagogici” della loro linea politica.

La celebre inchiesta “Capitale corrotta = nazione infetta” de L’Espresso, a firma di Manlio Cancogni, che denunciò la speculazione edilizia della capitale e gli intrecci tra pubblico e privato, la connivenza tra gli immobiliaristi e l’amministrazione comunale, entrò immediatamente nell’immaginario e nella sensibilità dei cittadini minandone le certezze di elettori.

Quel “nervosismo”, diciamo così, che attraversò il sistema politico fu la conseguenza diretta del dinamismo dello sviluppo economico.

I partiti furono posti davanti alla necessità di cambiare essi stessi la propria struttura organizzativa e le proprie impostazioni programmatiche per adeguarsi ai vistosi cambiamenti registratisi nel paese; erano stati in gran parte incapaci di determinare la “grande trasformazione”: la grande sfida, adesso, era di assecondare questo processo, travasandone gli effetti a livello politico-istituzionale.

Alla fine del decennio, in quel delicato passaggio dal centrismo degasperiano al centrosinistra, con la maggioranza governativa allargata anche al PSI di Nenni, andavano delineandosi nuovi e inediti equilibri politici con i quali l’Italia si sarebbe misurata nel decennio successivo.

Le divisioni interne, i turbinii politici e le alleanze che si fanno e si disfano non portarono ad una disgregazione e il sistema democratico, seppur così giovane e fragile, parò il colpo.  

Anzi, quel dinamismo testimonia la capacità della cosiddetta “partitocrazia” (termine con cui, di solito, si denuncia lo strapotere dei partiti) di sopravvivere nella nuova turbolenta stagione politica, e di saper, almeno per altri due decenni, guidare il paese con determinazione e autorevolezza.

Questo articolo appare anche su Kalporz, per reciproca volontà degli autori ed editori.