Stefano Pivato – Il secolo del Rumore

Recensione

Cosa significa oggi in una fase di capitalismo ad alto tasso di decibel, dove il rumore globale è consustanziale all’odierna civiltà del mercato, fare silenzio? E il chiasso perenne delle relazioni e delle macchine che tutti noi viviamo senza soluzione di continuità quale valore assume? Sempre che qualcuno faccia ancora caso al tappeto sonoro su cui volano le nostre abitudini quotidiane.

Stefano Pivato, storico e docente universitario, nel suo Il secolo del rumore. Il paesaggio sonoro nel Novecento, analizza dunque il significato sociale del rumore e con sguardo panoramico le fasi più significative della sua lunga storia. Perché sì, occorre dirlo: il rumore è affascinante, seduce chi ne fruisce, trasforma i comportamenti dell’individuo, modifica le dinamiche della nostra società più o meno definitivamente. Almeno da un paio di secoli. La rivoluzione industriale prima e quella tecnologica poi hanno trasfigurato il paesaggio sonoro relegando il silenzio a componente ancillare del quotidiano.

Tutto fa rumore nella nostra modernità: la politica, gli aerei (le due guerre per i nonni, l’undici settembre per noi), le automobili ma anche la musica, presente ovunque, quando si mangia sushi o durante l’aperitivo con gli amici.

Dato che non c’è tempo di farla troppo lunga scomodiamo solo chi del rumore ne fece addirittura un’ideologia: quei diavolacci dei futuristi: Carrà Boccioni, Carrà, Sironi e molti altri capitanati da Filippo Tommaso Marinetti, geniale fascistoide prima dell’avvento di Benito Mussolini (qui però non frega niente). Proprio loro parlano di “formidabile progresso” in un’epoca, inizio novecento, all’insegna del fragore più violento. In un movimento in cui tutte le arti partecipano e ridisegnano i contorni della cultura d’avanguardia è nella musica che il “casino futurista” esprime la sua sonorità. Il futurismo rivoluziona la prassi e la filosofia dei suoni proclamando la fine di stili, linee e forme della musica tradizionale. Nei tanti manifesti, alcuni dei quali dedicati proprio al suono e alla sistematizzazione della prassi musicale, figure come Francesco Balilla Pratella e Luigi Russolo delineano una poesia del rumore. Basta con le note, piuttosto rombi, sibili, gorgoglii, ululati e al posto dell’orchestra una bella macchina intonarumori: un macchinario formato da scatole voluminose che riproduce suoni dell’era industriale. Lo stesso Russolo afferma: “il rumore deve divenire un elemento primo da plasmare per l’opera d’arte. Deve perdere, cioè, il suo carattere di accidentalità per divenire un elemento sufficientemente astratto perché possa arrivare alla trasfigurazione necessaria di ogni elemento naturale in elemento astratto d’arte”.

Se solo il povero futurista fosse entrato in uno dei nostri affollatissimi centri commerciali, probabilmente non avrebbe lasciato intonsa nemmeno una di quelle grandi scatole, ma tant’è. L’unico rimedio è continuare a insistere sul Rumore quale espressione d’arte. Renderlo cioè funzionale e vicino semmai all’estetica, e al bello, che non ai decibel e alle disuguaglianze urbane.

PS: il nome della rubrica è dedicato proprio a Luigi Russolo perché inventò come mettere quella roba sul pentagramma, una scrittura adatta a tracciare la continuità dinamica nel groviglio di una composizione enarmonica. Che Dio lo benedica.

Questo articolo appare anche su Kalporz, per reciproca volontà degli autori ed editori.